di cactus e di codipendenze

cari cactini carini

Le piante grasse mi mettono alla prova, è come vivere un test quotidiano all’interno della mia routine.

Ogni mattina mi alzo, vado in bagno, porto giù il cane, faccio colazione e innaffio le mie piante curando quell’angolo di verde per me orgoglio e nutrimento.

Ogni mattina passo con la brocca d’acqua tra quelle più assetate, gli sorrido, stacco le foglioline secche e poi guardo esitante le mie piante grasse. Le cactacee.

Ho l’acqua in mano, tasto la terra asciutta e tentenno.

Perché io vorrei tanto, ma proprio tanto, dar loro da bere e contribuire così a una crescita meravigliosa. Intervenire, nutrire, guidare lo sviluppo di nuove propaggini e così via.

Ogni fibra del mio corpo inizia a desiderare di aggiungere un po’ d’acqua al terreno delle grasse anche se no, assolutamente no, non si fa. Perché non è che non abbia letto qualcosa sulla loro cura, non è che non sappia di aver quasi ucciso una bellissima aloe (affettuosamente detta La Luisa) perché l’ho riempita di acqua non necessaria. Lo so, eccome se lo so! I rinvasi, l’asciugatura delle radici… certo che lo so!

Eppure, io per qualche secondo sospendo il raziocinio e incomincio un dialogo interiore.

“Dai, hai messo l’acqua a tutte, che non gliene vuoi mettere un po’ anche a loro?”
“Sì, vorrei, però… no dai, lo sai che non si può.”
“Va beh, ma tanto non se ne accorgerà nessuno.”
“Sì, questo lo so, solo che poi magari si ingialliscono e è un casino.”
“Ma se lo fai solo questa volta no… pochino pochino, dai.”
“Solo questa volta, dici…?”

A volte riesco a contenere l’impulso di intervenire, altre però no. Sto sicuramente diventando più brava ma solo perché pratico un esercizio di osservazione verso balconi e davanzali altrui per prendere spunto dalla maestosità di certe grasse che vedo in giro.

Che poi non è vero che non se ne accorgerà nessuno, perché quando il cactus sarà giallo, floscio e marcio, me ne accorgerò io. Quando rimarrò con un vasetto vuoto da usare per altro, ci sarò io a notare la mancanza sul mio davanzale. E sarò sempre io a custodire l’onta di quel fallimento pressoché voluto.

Nelle relazioni per me è lo stesso.

L’altro deve solo fare la sua vita, seguire la sua strada, proseguire secondo propria natura. E io posso stargli vicino ma sono semplicemente chiamata a fare esattamente la stessa cosa con la mia, di vita.

Però a volte sono lì con l’acqua in mano, intenta a innaffiare tutti gli aspetti della mia persona e guardo lui. Lì. Così vicino anche se fatto di ritmi e necessità totalmente diversi dai miei. E che fai, un goccio d’acqua non glielo butti anche a lui?

Allora, anche se so che non dovrei perché non è affar mio e perché non sono assolutamente chiamata a nutrire a cottimo senza che dall’altra parte vi sia richiesta, io quel goccino d’acqua in più ce lo metto. Perché sì, perché secondo me lui aveva sete e quell’acqua gli avrebbe fatto bene ma, soprattutto, non si sarebbe mai accorto che io di nascosto gli allungo un po’ d’acqua ogni tanto.

Un goccino d’acqua oggi, uno domani e sì, magari lui non si accorgerà mai del fatto che sia io a farlo marcire ma rimane il fatto che prima o poi sarà un cactus giallo e un po’ moscio.

Anche se io volevo solo nutrirlo nell’arrogante convinzione di sapere cosa sia meglio per lui e di cosa gli serva per stare bene, infischiandomene di vedere veramente lui, i suoi ritmi e i suoi bisogni.

I cactus sono la scuola che mi mostra ogni giorno i sintomi della mia dipendenza, che è qualcosa di subdolo perché la spinta apparente è votata al bene, al nutrimento e al benessere: so io cosa sia giusto per te!

Ma non è così e la pianta presto o tardi svelerà quelle innaffiatine segrete e per me sporadiche diventando gialla. Perché, contrariamente alle persone, la pianta ha radici che la obbligano a rimanere anche quando l’ambiente intorno è tossico e inadatto alla sua crescita.
Anche certe persone hanno quel tipo di radici ma questa è un’altra storia…

Io sto imparando a fermarmi prima di versare l’acqua se non mi viene chiesta ma la tentazione rimane forte e ancora non passa quell’istinto iniziale di versare secondo il mio bisogno. Ogni tanto un po’ me ne scappa. Ancora mi dico che non se ne accorgerà nessuno ma questo non è mai stato vero perché io lo so: ormai non si tratta più un automatismo inconsapevole.

Di codipendenza e di tramonti

Caffè, il sapore un po’ amaro del tabacco, odore di incenso.

Questi sono i profumi che in questo momento mi girano intorno, dove a tratti si inseriscono note canforate di un olio solido per massaggi.

Mi ritorna alla mente “Un uomo”, la canzone di Finardi che per tanto tempo è stata per me il punto di riferimento per tutti i parametri dell’uomo dei sogni.
La sto ascoltando spesso sperando, attendendo, immaginando.
Facendo vagare la mente e lo stomaco con le sue farfalle appresso alle polaroid dell’immaginazione.

E tutto questo mentre sono qui a contare i frammenti della mia relazione reale e attualmente finita come quando a cena al ristorante picchietto l’indice sulla tovaglia per tirar su le bricioline di pane di cui sono ghiotta.

“Allora basta”
“Sì, forse è meglio così.”
Non sono esattamente le parole che ci siamo mormorati al telefono, non ricordo quali siano con esattezza. Mi piacerebbe poter dire che ci sia stato un dialogo da pelle d’oca, qualcosa da copione del grande schermo, ma mentirei. Ci siamo bofonchiati qualcosa dopo un paio di recriminazioni prive di grazia ma anche povere di energia e, stancamente, abbiamo concluso la nostra personale carneficina.
Allora basta.

Ci ho messo un anno ad arrivare a tutto questo perché è poco più di un anno che ci conosciamo. Ma Osho e altri come lui han sempre detto che se le cose non fluiscono dall’inizio, difficilmente saranno destinate a farlo e… appunto.

Un anno. Alti e bassi, ciclicamente io nella doccia a piangere e a parlare al mio bagno da sola, per sfogare parole che avrei voluto dire a lui. O a me stessa.

Un anno in cui mi sono messa da parte da sola. Lui era più importante, veniva prima, era la persona che non doveva abbandonarmi per niente al mondo. E io a farmi piccola e a non ribellarmi, calpestando la mia dignità, i miei bisogni e la mia bellezza.

Mai abbastanza bella, mai abbastanza brava, mai abbastanza tutto.
Vi siete mai sentiti la comparsa della vostra relazione quando dovevate esserne i protagonisti? Io sì. E non è bello.
Soprattutto quando in realtà dall’altro lato c’è una persona che non è disposta ad andare da nessuna parte, che non offre alcun nutrimento alla relazione ma ogni volta che la cosa viene tirata in ballo, è capace di manipolare il tutto per farvi dubitare di voi stessi.

Questa cosa ha un nome e si chiama codipendenza. Una malattia vera, dalla quale sono afflitta e su cui sto lavorando.

Il primo passo è riconoscere di essere malati e che la vita è diventata ingovernabile a fronte di questa condizione.

Il secondo, per me, è eliminare la sostanza da cui sono dipendente: questa non-relazione. La prigione di vetro entro cui mi sono rinchiusa per non percepire il vuoto.

Tutto, pur di non rimanere da sola nel nulla. Nel vuoto. Nel wu-chi (assenza di polarità, vuoto fertile).

E’ il vuoto della meditazione e è quello da cui mi tengo lontana appena posso. O almeno, lo facevo prima.

Perché oggi ho dato voce al mio vaffanculo e forse – forse veramente – inizio a percepire come reale il detto “meglio soli che male accompagnati”.

Forse comincio da me.

Perché non è vero che non amo te e che non ti voglio. Io non amo noi, non voglio noi.