Sono a favore dell’aborto.
Sono a favore della libertà di scelta.
Sono a favore della libertà in generale.
E non è facile, perché libertà e etica sono due posizioni a volte in contrasto tra loro e piazzare l’asticella della legittimità è un gioco di equilibrismo mica da ridere.
12 di voi
Siete 5 ma, se non avessi abortito, sareste 12.
mia mamma
E’ una cosa che mia madre, parafrasando, ha spesso ripetuto nel corso del tempo. Eppure solo negli ultimi anni ci ho fatto davvero caso, traducendo a modo mio ciò che lei ha spesso pronunciato con altre parole: ho usato l’aborto come metodo anticoncezionale.
Sì, qualcuna è andata persa per strada per via di aborti spontanei ma la maggior parte delle gravidanze è stata volutamente interrotta con un’operazione.
E va bene così.
Va bene così perché si tratta di una sua scelta insindacabile, era libera di farlo e non mi permetto di entrare nel merito della vita di un’altra persona.
Io però ho delle reazioni in merito. Nel mio percorso c’è anche questa storia che fa parte di me come un assunto: mia madre ha usato l’aborto come metodo anticoncezionale.
Non ho giudizi in merito. Se si trattasse di una mia amica e oggi la vedessi passare attraverso tutto ciò, sicuramente le suggerirei un metodo anticoncezionale più sicuro. So per certo che si tratta di una donna dalla fertilità leggendaria e allora perché passare attraverso un’esperienza così drammatica se si può fare diversamente? La risposta è che probabilmente di questa storia conosco solo la punta dell’iceberg e che, forse, diversamente non poteva fare. In cuor mio ne dubito fortemente ma questo non ha alcuna importanza. Rimane il fatto che tutto ciò sia in qualche modo entrato in me come un imprinting sul quale lavorare. Se tornassi a fare Costellazioni Familiari forse spenderei un po’ di tempo per lavorare in me e nel mio sistema familiare e energetico sul valore e l’importanza di un tale background. Ma questo è un altro discorso.
A 19 anni ho abortito.
Ero già incinta quando ho avuto il ritardo che mi ha fatto sorgere il dubbio ma non lo sapevo. L’ho saputo con l’ecografia del medico che ha datato la mia gravidanza.
Ricordo di aver telefonato a mia madre, che in quel momento era fuori casa, per dirle che avevo fatto un test e che era risultato positivo. Allora lei aveva preso in mano la situazione dicendo che ok, avremmo risolto.
L’unica soluzione che mi aveva presentato era l’aborto e sebbene fosse una scelta alla quale sarei giunta anche da sola, ricordo nitidamente di come in quel momento lei l’avesse presa per me: andiamo ad abortire.
“Andiamo”, un plurale che si è inserito nella mia mente e nella mia vita in modo indelebile.
Ricordo tutti i sintomi di quella gravidanza: le nausee fortissime, i seni gonfi e duri, le aureole dei capezzoli più scure, le vene del petto che si mostravano in trasparenza sotto la pelle, l’urgenza di urinare spessissimo.
Il ginecologo del consultorio da cui ero andata per iniziare il tragitto verso l’operazione mi aveva trattato con sufficienza facendomi domande sulla scuola, ridicolizzando le mie capacità di studentessa, facendomi male con il guanto non bene lubrificato nel visitarmi.
La psicologa aveva cercato di convincermi a tenere il bambino e ricordo che mi ero sentita di dover mentire dicendo che si era rotto il preservativo, terrorizzata dall’idea che potesse impedirmi di andare fino in fondo con la scusa di una mia leggerezza durante il rapporto sessuale. Ero molto spaventata perché in quel momento la mia vita non era nelle mie mani ma tra quelle di qualcosa molto più grande di me: il sistema.
Tenere quel bambino sarebbe stata la punizione del sistema nei confronti della mia vita sessuale sconsiderata, visto che avevo fatto sesso in modo non protetto, e quindi non sicuro, col mio fidanzato dell’epoca.
E io non volevo essere punita.
Quando mia madre mi trovò a piangere in camera da letto mi domandò sconcertata se per caso non volessi tenere mio figlio. Non aveva preso in considerazione quella strada. No, non volevo tenerlo ma non avevo nemmeno scelta. E, soprattutto, avevo una paura fottuta.
Il giorno degli esami in ospedale, il mio ragazzo non si era presentato adducendo scuse imbarazzanti del tipo che doveva andare in posta per sua nonna perché il giorno prima c’era troppa fila. Ricordo perfettamente la mia rabbia: sapevi che ci sarebbe stata la giornata di esami e test in ospedale, non potevi fare comunque la fila? Evidentemente no. Aveva paura anche lui ma solo ora me ne rendo pienamente conto.
In ospedale, il giorno dell’operazione, ero stesa a letto con il camice aperto dietro la schiena e un dottore molto carino era passato a inserire nel mio corpo la piccola pastiglia che avrebbe dato il via alle procedure dell’IVG. Mi era sembrato molto carino e il mio lato giovane e romantico aveva fantasticato su di lui malgrado la situazione.
Dopo di che ci avevano mandate tutte al piano di sotto, in una sala d’aspetto con sedie di plastica lungo le pareti. Forse per via dell’iniziale del mio cognome, ero rimasta l’ultima. Da sola. In quella sala, avevo sentito umido tra le gambe e, controllandomi, avevo visto il sangue iniziare a colare lungo le mie cosce. Un filo rosso e liquido che scendeva per dirmi che ormai non c’era più niente da salvare. Un filo rosso che non dimenticherò mai.
Per anni quell’immagine è rimasta sepolta nel mio inconscio senza che me ne ricordassi ma da qualche tempo, per via dei molti lavori che sto facendo su di me, è tornata a bussare alle porte della mia mente. Ce l’ho di nuovo stampata nella testa: l’azzurro delle sedie, il rosa pallido delle mie gambe e un filo rosso che scende da sotto il bordo della vestina. L’imbarazzo di sporcare in giro con il mio sangue. La solitudine che non mi ha permesso di chiedere una mano a nessuno: ero lì completamente sola, smarrita e fragile, con tantissima paura dentro al petto e nello stomaco.
Della sala operatoria ricordo stranamente tanto buio, un lettino con le staffe sul quale non ricordo di essermi arrampicata e una famosissima canzone di Robbie Williams in sottofondo. Una canzone che non sono più riuscita ad ascoltare.
Le mie braccia aperte, la flebo, le luci fioche addosso, il conto alla rovescia e poi più niente.
Non ho mai detto a mio padre di aver abortito, sebbene io sia convinta che in qualche modo lo sapesse. Ai miei fratelli più grandi l’ho raccontato ma non a quelli piccoli e, certamente, non al papà degli ultimi due. Ai più, ho raccontato con la complicità di mia madre di un problema ginecologico che andava sistemato tramite una piccola operazione in day hospital.
Rimasi a casa da scuola per due settimane e quando tornai praticamente lo sapevano tutti.
Ad oggi non riuscirei a parlarne con mio padre perché spesso ho asserito con convinzione di non aver mai abortito, come qualcosa dalla quale distanziarmi, e oggi proverei vergogna a dirgli di avergli mentito. Non mi giudicherebbe e forse non avrebbe niente da dirmi in merito ma non è qualcosa che mi senta di affrontare né ne sento l’esigenza.
All’epoca non gli dissi niente perché ero la sua principessa. Non potevo essere una principessa così tanto fallimentare.
Mi è facile parlare della mia esperienza, un po’ meno abbinare parole che abbiano un valore emotivo all’intera storia. Provo molto pudore nei confronti della mia paura e del mio dolore e l’immagine di quel filo rosso tra le mie gambe è ancora così tanto vivida e tagliente da disturbarmi: tra me e il mio futuro – possibile prole – c’è un filo di sangue a tracciare il sentiero. A sbarrare la strada. Davanti a me c’è sangue.
Desidero dei figli. E’ qualcosa di atavico che mi vive nelle carni. Lo sento nella pancia vuota, nei seni che vorrebbero nutrire, tra le braccia che cercano compimento attraverso il gesto di stringere qualcuno da inondare di amore incondizionato.
Allo stesso tempo, ho dovuto guardare il bambino che non ho voluto far nascere, parlargli, chiedergli scusa.
Non per l’interruzione di gravidanza in sé, dal momento che a livello etico non sento l’aborto come una cosa sbagliata, ma unicamente per avergli tolto la possibilità di vivere. Non saprei spiegarlo diversamente: sono a favore dell’aborto eppure oggi non riuscirei più a scegliere quella strada.
Mi sono ripromessa che non lo avrei fatto più.
Se un bambino vorrà nascere da me, non interromperò più nulla.
Nella mia vita ho dovuto assumere la pillola del giorno due volte, dopo quell’esperienza di quasi 20 anni fa, e l’ultima volta è stato il mese scorso.
Non l’ho fatto facilmente ma grazie a quell’esperienza ho capito di non volere figli ora. Ho vissuto la cosa come il lutto di una possibilità, non come un lutto in generale e certamente non il lutto di un figlio. Solo di una possibilità.
E’ stato di conforto sentir dire al mio compagno che anche per lui sia stato un piccolo lutto: la natura avrebbe voluto che i suoi spermatozoi trovassero una strada verso il mio uovo, visto che sono giorni fertili, e noi abbiamo deciso arbitrariamente di ritardare l’ovulazione così che morissero senza trovare la loro agognata meta.
E’ stato di conforto sentirgli dire che, benché non desideri figli, se io rimanessi incinta non se ne andrebbe.
Oggi non sono sola. Ma se pure lo fossi, avrei dalla mia molti più anni di esperienza e una consapevolezza di me differente.
Consapevolezza che non ha la funzione di annullare il dolore ma di permettermi di osservarlo e processarlo senza farmi soffocare dalla paura.
Oggi non avrei bisogno di una madre che prende decisioni per me ma, madre di me stessa, accompagnerei la mia bambina interiore attraverso l’esperienza confortandola. Con la promessa che, qualsiasi cosa sceglierà, non mi deluderà e non l’abbandonerò.
Forse è stato questo a spingermi verso una scelta che non era stata del tutto mia e a mantenere il silenzio verso mio padre: la paura di deludere la donna dei tanti aborti, la paura di uccidere l’uomo che mi aveva assurto a principessa.
La paura di diventare madre perdendo il mio ruolo di figlia.